domenica 7 marzo 2010

DIARI ESTERI

Diari esteri. Ovvero, come fare cose con le parole (scritte)

“Quante cose si possono fare con le parole?” – pensavo stamattina, tra me e me, mentre preparavo il solito (ottimo) caffé italiano in terra svizzera. “Beh, di certo non poche” – mi sono risposta senza nemmeno pensarci su. Poi, a causa del risveglio non ancora del tutto compiuto, ho vissuto l’usuale sensazione che spesso al mattino – ancora ubriaca di sonno – mi accompagna: la sensazione di non essere in grado di profferire parole articolate, frasi di senso compiuto. Come si dice, “non mi uscivano le parole di bocca, almeno non quelle giuste”. Ecco perché alla prima domanda se n’è aggiunta ben presto un’altra: “dunque, si possono fare tante cose con le parole, ma come si fanno cose con le parole?”. I movimenti lenti e automatici sono ancora quelli di chi con la stessa lentezza di un bradipo sta ancora prendendo coscienza di sé e del proprio corpo. Tuttavia, qualche risposta comincia a frullare nel cervello. Ma andiamo per gradi. Di certo con le parole si comunica. Si descrive, si racconta, si spiega. Si produce e si esprime senso. Spesso anche sensazioni, sensibilità, sensatezza e sensualità. Ci si fa conoscere. Si interagisce. Si creano, per farla breve, relazioni umane. Insomma, tutto sommato con le parole si vive, anzi spesso si dà forma alla parte più rilevante dell’esistenza. Se poi la parola si fa scritta, ecco che emergono ancora altre sfumature, altri colori nella comunicazione, nella relazione. Sì, perché sappiamo bene che la parola scritta permette di “agire” in modo tutto diverso da come lo si fa in situazioni face to face. Non c’è il linguaggio del corpo ad aiutarti. E non ci sono gli sguardi, i suoni, le intonazioni, i non detti impronunciabili a cui, però, si impara ad alludere, spesso con il supporto della gestualità. Non ci sono i silenzi pieni, che sanno così abilmente investire di senso il territorio della comunicazione immediata. Diciamo meglio. Tutto questo c’è e non c’è. Ancora un pochino meglio: c’è in modo diverso. La nostra intenzione comunicativa sa aggrapparsi anche alla scrittura e, anzi, di essa si alimenta. E allora la parola scritta diventa strumento indispensabile per chi si veste degli abiti del parolaio di professione. Una precisazione è però qui d’obbligo: nessun professionista o “burattinaio” di parole si cela, qui, tra queste righe. E nessun artigiano della comunicazione efficace.
Quello che invece vorrei tentare di fare è esprimere nella e con la scrittura le molteplici intenzioni comunicative che si succedono nei pezzetti -tante volte irriflessi- della nostra vita quotidiana. E vorrei provare a farlo rimettendo alla scrittura il compito ardito e ambizioso di saper evocare l’intensità e l’immediatezza della parola detta, pronunciata, con tutto quello che l’accompagna: gesti, suoni, colori, intonazioni, accenti, sfumature. Senza alcuna ambizione di professionalità. Con i Diari esteri vorrei insomma limitarmi a raccontare storie di vita quotidiana da una prospettiva diversa. Dalla prospettiva di chi si sente straniero perché sradicato dal suo usuale modo di relazionarsi, dalle sue abitudini, dalla sua consuetudine vitale. Dalla prospettiva di chi effettivamente straniero è. Perché è lontano, magari non troppo, e comunque distante dalla sua città, dalla sua famiglia, dai suoi amici e dai suoi affetti. Dalla sua casa e dalla sua lingua. Dalla prospettiva di chi vive quotidianamente l’impossibilità di essere autenticamente se stesso perché, per quanto sappia esprimersi e tutto sommato servirsi della lingua del Paese ospitante, per farsi comprendere, è costretto a sforzi talvolta spersonalizzanti. È costretto a modificare e manipolare la sua stessa sintassi mentale, perché (oramai si sa) due lingue diverse sono due mondi diversi, due modi a volte contrastanti e senz’altro alternativi di pensare.
Nei nostri prossimi incontri io personalmente proverò a offrire il mio sguardo di straniera, per quanto nel mio caso si tratti di narrare esperienze, vicende e vissuti da una posizione che non è certo la peggiore possibile. Perché – diciamocelo – ci sono tanti modi di essere e di sentirsi stranieri. E il mio è senza dubbio un modo privilegiato. E il modo di chi ha già un lavoro, e un lavoro socialmente apprezzato, di chi ha una buona istruzione, una discreta cultura generale; il modo di chi è accolto e in parte apprezzato, di chi ha una possibilità, e forse più d’una, di farsi conoscere. Di chi può permettersi di scegliere se andare o restare. Di chi sta investendo sul proprio futuro. E noi, signori cari, sappiamo bene che questa non è la condizione di tutti gli stranieri. Allora le parole che i Diari esteri vogliono regalare sono occasioni di riflessione, ma anche qualcosa di più. L’invito è a riflettere insieme sui significati delle esperienze di estraneità, sui modi in cui si danno, di riflettere insieme sulle difficoltà di certe situazioni, senza dimenticare quanta ricchezza sanno donarci certe altre. Di fare ancora una volta insieme  uno sforzo di comprensione. Proviamo a sentirci, per quanto possibile, tutti stranieri. Rispetto a cosa, decidiamolo giorno per giorno. Facciamolo, però, perché che con le parole “non si fan rivoluzioni” è francamente ancora tutto da dimostrare.  


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Alice Boum © www.Blogger.com changed Un Blog di Disobbedienza Creativa by http://aliceboum.blogspot.com