lunedì 19 aprile 2010

Io sono un terrorista di pace! -Noi stiamo con Emergency-

Perché la mia idea di pace è Emergency. Perché Emergency è concretezza, cultura di pace e diritti. Gli italiani lo sanno e sono quasi 400mila le persone che hanno firmato l’appello lanciato sabato scorso da Gino Strada, fondatore della ong, “Io sto con Emergency”. Perché se ancora tutto non è perduto e in questo mondo le cose possono cambiare lo dobbiamo anche ad Emergency.
La manifestazione organizzata in 4 giorni dallo staff di Emergency ha fatto vedere che le persone che appoggiano l’associazione non solo sono tantissime, ma credono realmente che gli operatori italiani di Emergency non possono essere in alcun modo coinvolti nella sporca operazione di cui sono stati accusati. Matteo, Marco e Matteo hanno ricevuto la solidarietà di tantissimi italiani perché chi va a rischiare la vita per un’idea così forte di pace non può essere colpevole!
La questione: sabato scorso i 3 operatori italiani Marco Garatti, medico chirurgo, Matteo Dall’Aira, infermiere, e Matteo Pagani, logista, erano stati arrestati, o per meglio dire sequestrati, dalle forze della polizia afghana e dai militari della missione ISAF senza un capo d’accusa formale, ma con la sola “motivazione” di essere coinvolti nella preparazione di un attentato terroristico contro il governatore della provincia di Lashkar-gah. Capo di accusa mai formalizzato appunto. Insieme ai 3 operatori italiani anche 6 afghani dello staff di Emergency.
Lashkar-gah si trova nel sud dell’Afghanistan, proprio la zona dove si stanno concentrando gli scontri fra la missione nato e i Taliban. Ecco il punto della questione. Gli scontri. Emergency da quando è nata cura le vittime della guerra e sbatte sotto gli occhi di tutti le violenze che la guerra provoca. Perché a vedere le foto dei pazienti di Emergency si rimane sgomenti al pensiero che la maggior parte di quelle vittime sono bambini. Perché in guerra per ogni soldato che muore, muoiono 5 bambini! E proprio quando gli scontri stavano iniziando ad essere più cruenti, probabilmente la testimonianza di persone che con la guerra hanno a che fare ogni giorno perché ne curano le vittime poteva farsi veramente troppo scomoda.  E allora Emergency sta con i terroristi. Sta con i terroristi perché cura quei bambini, che oggi hanno 4 o 5 anni, ma fra 15 potrebbero diventare taliban, e potrebbero essere terroristi. Emergency favorisce il proseguo di questa guerra! Emergency deve chiudere l’ospedale di Lashkar-gah.
Ok. Torniamo un attimo indietro. Una sola domanda. Chi è il terrorista? Terrorista è chi impugna un’arma e combatte una guerra, terrorista è chi ha come obiettivo quello di uccidere oppure terrorista è chi si sporca le mani di sangue perché, armato di bisturi, cura le vittime di quella sporca guerra?! Ha ragione Vauro: gli ospedali di Emergency sono pieni di armi. Proiettili e schegge di mine o bombe varie. Lo testimonia Vauro  che gli ospedali di Emergency li ha visitati tutti. Ma lo posso testimoniare anche io, che non ho mai visto. Gli ospedali di Emergency sono pieni di queste armi. Sono quelle estratte dai corpi dei pazienti dilaniati dalla guerra.
“Le armi nell’ospedale di Emergency? Non posso escluderlo. Ma posso sicuramente escludere che siano stati gli operatori di Emergency a mettercele!”, ha più volte dichiarato in questi giorni Gino Strada. Una trappola per screditare Emergency? Se così fosse è riuscita solo a rafforzare la sua posizione.
Tristi alcune uscite del governo e di alcuni personaggi di spicco della maggioranza di governo sul fatto che se fosse stato vero quello di cui erano stati accusati “Mi vergognerei di essere Italiano!” (un tale ministro della Repubblica).
Ieri alla manifestazione a Piazza San Giovanni a Roma c’era chi si dichiarava fiero di “Non far parte della coalizione!” e meglio ancora chi diceva che “Emergency è l’unico orgoglio nazionale”. Perché l’unica posizione che Emergency ha sempre assunto è quella di stare dalla parte delle vittime della guerra; di curare quelle vittime che troppo spesso sono bambini e non sanno il perché di quei bombardamenti!
Se questo significa essere terroristi allora anche io sono terrorista. Perché sono contro la guerra. Perché sto con Emergency in modo incondizionato e perché delle scelte alternative alla guerra esistono. Ed Emergency lo dimostra giorno dopo giorno! E lo dimostrano anche quegli 11 mila Afghani della Valle del Panshir, a nord dell’Afghanistan dove Emergency ha un altro ospedale, un centro di maternità e svariati posti di pronto soccorso, che si sono recati per firmare l’appello “Io sto con Emergency”. E in un paese dove l’analfabetizzazione è al 62%, coloro che non sapevano firmare hanno voluto lasciare la propria impronta digitale per sottoscrivere l’appello.
Oggi, domenica 18 aprile, intorno alle 15:30 i tre operatori italiani sono stati liberati e sono stati portati presso l’ambasciata Italiana a Kabul. Insieme a loro anche 5 dei 6 afghani. Le motivazione del rilascio? Insufficienza di prove. No. Non è così. Le prove semplicemente non esistono. Matteo, Marco e Matteo sono liberi perché sono innocenti.
Perché, come ha detto ieri Gino in piazza “Io non sono del tutto pacifista. Perché se mi dicono che Marco, Matteo e Matteo sono dei terroristi rischiano anche uno sberlone!”. “ Ma noi non lo facciamo!” ha continuato.
E allora non lo facciamo. Però io mi dichiaro terrorista di pace. Semplicemente perché sto con Emergency e perché è anche grazie ad Emergency che ancora nutro speranze in un mondo diverso!
Io sto con Emergency. 

martedì 13 aprile 2010

GIOCHI DI GUERRA, TUTTI GIU' PER TERRA

Sono storie di pace giocate a suon di mitra; storie di guerra giocate su un campo di fiori. Sono le storie di un mondo reale che si accartoccia su se stesso; storie di uomini che sorreggono il peso del mondo cercando di evitare di essere definitivamente sepolti vivi.
Sono storie che emergono in momenti di emergency ma che popolano il palinsesto mondiale ogni giorno, a tutte le ore del giorno. E della notte. Anche quando lo share cade a picco, anche se l'auditel non rileva i dati di ascolto. Anche quando emergency c'è, ma nessuno se ne cura.

Rimane guerra.
Anche se a noi, gente fortunata, arriva con i sottotitoli in inglese, possiamo scaricare l'ultima puntata su megavideo e cambiare perfino il finale, se abbiamo lo stomaco troppo debole.  Rimane guerra anche se indossa vestiti firmati freedom. E' guerra, anche se la chiamano pace. Che se ci mettessimo d'accordo e da domani chiamassimo amore la merda, quell'amore rimarrebbe merda. 
Siccome siamo ottimisti, sappiate che vale anche per il contrario. Basta intendersi.

Qualcuno sa dirmi quante siano le zone del mondo in conflitto, in questo esatto momento? Qualcuno sa dirmi quante persone muoiano quotidianamente? Chi sa dirmi come posso fare a sentire questa guerra, queste vittime, questo mondo così distanti, più vicini? Mi aiutate a capire in che punto del corpo dovrei sentire dolore di fronte ad immagini che assomigliano ad un qualsiasi film di guerra? 
Grido anche io "Forza Matteo, Marco, Matteo". Ma chi sono? Perchè se non li ho mai visti sto con loro? Perchè questo senso profondissimo di solidarietà? Nelle vostre vite, cambia qualcosa? 
Quando uscite con i vostri amici, poi, riuscite a dimenticarvene? Di cosa parlate? 
Cambia qualcosa, per l'Italia in Italia, il fatto che tre volontari di emergency siano stati arrestati in Afghanistan? A parte avere un nuovo avatar su facebook, cosa accade nelle vostre vite reali?
Quando andate a comprare il pane, ad esempio, vi capita di pensarci? Quando seguite una lezione di diritto internazionale, vi viene voglia di alzare la mano e domandare al professore: "cosa sta capitando in Afghanistan?". Quando vostra madre vi chiede come stiate, le dite: "Mamma, io sto con emergency"?.

Mamma, io sto con emergency.


Ma io, Cardinal Bertone, non ho sentito una sola parola d'amore uscire dalla sua bocca


Era inevitabile che la chiesa portasse avanti una difesa del proprio status quo calpestando i diritti di qualcuno. Infischiandosene del linciaggio mediatico che le parole, sputate come veleno, dal Cardinal Bertone, in visita in questi giorni a Santiago del Cile, avranno sulle minoranze sessuali dell'intero mondo, la chiesa ha scelto di confondere le menti delle persone invece di dare una risposta adeguata alle proprie colpe. 
Così Bertone sceglie di pronunciare alcune semplici frasi consapevolmente, sapendo che ciò distoglierà l'attenzione dai gravi casi di pedofilia che hanno investito, con tutta la propria drammaticità, gli uomini di chiesa.
“Non c'è alcun collegamento tra la pedofilia e il celibato a cui sono sottoposti i sacerdoti; e invece questo tipo di patologie sessuali sono da mettere in relazione all'omosessualità.” Sono parole pesanti quelle del cardinal Bertone, parole che aspettavano di essere pronunciate da molto tempo, parole mirate a creare una confusione mediatica, a sollevare un polverone, a confondere le menti degli adepti di questa religione che si occupa sempre più di potere e sempre meno di amore.
In tutta questa triste vicenda non c'è stata una sola parola di conforto per le vittime degli abusi da parte dei preti pedofili, non c'è stata una sola azione di misericordia, nessun mea culpa che avrebbe alleggerito la posizione della chiesa.
No. Si è parlato di complotto, di attacchi insensati alla chiesa e al papa. Il potere che cerca di mantenersi tale. Ma non ho sentito nessuna parola d'amore. Nessuna.
Poi la exit strategy. Non si può toccare il celibato perché significherebbe ammettere di aver sbagliato qualcosa e allora si diano gli omosessuali in pasto ai leoni. Inutile cercare di spiegare la differenza fra pedofilia e omosessualità, sono certo che il Cardinal Bertone la conosce bene. Però occorre insinuare il dubbio, cercare un capro espiatorio. Il compito principale oggi è salvare il salvabile e scaricare le proprie colpe sugli altri.
Nessuno si è mai permesso di fare l'equazione prete=pedofilo. Eppure la chiesa continua a sottintendere un'idea malata di omosessualità. Diranno che i preti pedofili erano omosessuali infiltrati?
Il disgusto nei confronti della violenza ideologica di certi personaggi è forte, occorre reagire con prontezza a tali affermazioni.
Anche attraverso vie legali. Ma occorre reagire, pacificamente e in modo non violento, occorre muoversi ora prima che la chiesa, per voce di qualche Cardinale, insinui ancora che il male risiede nella natura omosessuale.
La chiesa ha grosse responsabilità nei casi di pedofilia. Il pedofilo si veste da agnello e cerca quei luoghi a lui più consoni in cui poter venire a contatto con le vittime. Trovo assurdo anche sostenere che un prete diventa pedofilo a causa del celibato, è una vera sciocchezza. Molte di queste persone scelgono di fare lavori che li porteranno a contatto con i bambini. Ma la chiesa non ha vigilato, non ha denunciato, ha nascosto, minimizzato e taciuto. E ora che si trova con una bomba pronta ad esplodere fra le mani ha bisogno di scaricare le proprie colpe su qualcun altro.
Non è così che funziona, cardinal Bertone. Occorre pagare per i propri crimini e per le proprie mancanze, occorre denunciare, vigilare e se si è venuti meno al proprio mandato occorre avere la sensibilità e l'intelligenza di chiedere perdono. È questo il senso della religione. Un senso che ormai molti uomini di potere all'interno della chiesa hanno perso di vista.
Immagino già che da una parte e dall'altra della politica da reality italiana altri uomini di potere si schiereranno con il cardinal Bertone.
Ma questi atteggiamenti non copriranno una realtà che è davanti ai nostri occhi in tutto il proprio orrore. Ci sono stati uomini, uomini che indossano vesti sacre e rivestono ruoli importanti all'interno della comunità, uomini il cui compito dovrebbe essere portare in giro per il mondo la parola di cristo, che hanno abusato di bambine e bambini. Questi uomini non hanno nulla a che fare con l'omosessualità.
Sono pedofili.
E ci sono altri uomini, uomini che vestono gli stessi abiti dei precedenti, che hanno insabbiato e coperto le violenze nei confronti di persone minorenni. Cardinale lei può dire quello che vuole contro le persone omosessuali, sappiamo qual è il suo pensiero in proposito e sappiamo che la nostra condizione ci indica come i migliori agnelli sacrificali, ma io non ho ancora sentito una sola parola d'amore nei confronti delle vittime degli abusi sessuali commessi dai preti pedofili.
Non ho sentito scuse e neppure ho visto lacrime di vergogna. Ho sentito solo la vostra arroganza e il vostro odio.

lunedì 12 aprile 2010

Diari Esteri 2 -Precari non si nasce, si diventa-

Cara Alice,
che strano questo senso di inquietudine con cui oggi mi trovo a fare i conti. Oggi sento tutta la distanza. E vivo la paura. Tu sai bene che sono partita carica, piena di energia e voglia di intraprendere strade nuove. Nessuna guerra fuori dalla mia porta. Nessuna disperata prospettiva di vita nel mio mondo. Anzi. Una vita sicura, tutto sommato, stabile negli affetti, gravida di emozioni, di progetti, di problemi e di soluzioni. Una vita precaria su molti altri versanti, come quella di tanti altri, di amici, di conoscenti, di sconosciuti e di nemici: tutti accomunati, anzi, tutti uguali di fronte a questa cosa che chiamiamo precarietà.
Chi ha studiato e chi no, chi parla cinque lingue e chi solo una, chi ha girato mezzo mondo e chi a stento conosce la propria città, chi vive di ambizioni e chi non ne ha alcuna, chi è ricco e chi no, chi è povero e chi no. Tutti diversi eppure tutti uguali almeno di fronte al sentimento di precarietà, alla sua ingombrante concretezza. È così che ho fatto la mia scelta. Si parte per tante ragioni, certo, ma io personalmente sono partita prima di tutto per sfuggire alla precarietà imposta. Ho lasciato la mia Bologna, la mia casa, i miei amici e il mio amore per scegliere autonomamente la strada della precarietà. Sì perché non facciamo l’errore di pensare che fuori dall’Italia ci sia una nuova America ad aspettarci. Niente di più sbagliato. Fuori dall’Italia c’è sempre la stessa precarietà ad aspettarti, forse persino più spietata e selvaggia. Con una differenza sostanziale che, Alice cara, fa la differenza (concedimi il gioco di parole): fuori dall’Italia il tuo lavoro ha un valore, spesso – udite udite – ha anche un prezzo (ebbene sì, Alice, qui se lavori ti pagano: una rivoluzione!); fuori dall’Italia hai la possibilità di mettere a frutto quello che studio ed esperienza ti hanno insegnato, unita alla possibilità di continuare ad imparare perché, fuori dall’Italia, l’idea della formazione permanente ha smesso di essere soltanto un’idea ed è diventata realtà. Solo che fuori dall’Italia non c’è l’Italia. Ed è un peccato. Perché solo dio lo sa quanto è bella e viva e varia e vivace la nostra Italia. Tenuta in pugno da uomini piccoli vestiti da gran signori. Da uomini che decidono tutto, anche della nostra precarietà. Che sono bravi a considerarci uguali sotto un unico punto di vista: rendendoci impotenti e rassegnati.
Ed ecco che allora decidi di andartela a cercare da sola la tua precarietà, scappi via e provi ad attribuire nuovi significati a una parola che fino ad ora ti aveva fatto solo paura. E cominci ad associarla alla varietà, alla versatilità, alla possibilità. Perché se sei precario sei sempre in movimento, sempre pronto a inventarti nuovi percorsi, nuove strade, nuove progetti. Se sei precario, finisce che cambi spesso lavoro e, guarda un po’, impari a fare mille altre cose oltre a quelle che avevi pensato di potere e di sapere fare. Se sei precario la tua parola d’ordine, non è più né essere, né avere. Se sei precario la tua parola d’ordine è divenire. Con questo, cara la mia Alice, non voglio certo fare un’apologia di quella parolina che oggi ho ripetuto e scritto così tante volte; non voglio nemmeno dire, tra Voltaire e Candide, che questo in cui siamo gettati sia il migliore dei mondi possibile. Voglio però provare a vedere la cosa da una prospettiva diversa, disobbedire al modo usuale di leggere e di vivere la precarietà.
E allora perché questo senso di difficoltà, perché sento la distanza e la paura? In questi giorni, Alice, ho avuto modo di parlare con molte delle persone che frequentano la scuola in cui lavoro. Sono per lo più stranieri, per lo più disoccupati. Mi sono chiesta e ho chiesto loro che cosa si sente a essere disoccupato. Ad avere 30, 40, 50 anni o più, trovarsi lontano dal proprio mondo e non avere nemmeno più un lavoro, aver perso cioè quell’unica ragione che ti aveva portato via dalla tua terra e dalla tua vita. Beh Alice, molti di loro nemmeno mi hanno risposto. All’inizio non capivo perché abbassassero lo sguardo facendo finta di non capire la domanda. Poi ho capito. Come ci si sente? Prima di tutto ci si vergogna. Sì, loro si vergognano, glielo leggi in faccia: si vergognano di avere poco o niente, di rappresentare quella parte di società che tutti guardiamo con timore.  Spesso si vergognano di essere stranieri perché hanno abbandonato tutto e si sono spostati in cerca di fortuna, ma senza successo e allora pensano di valere meno di niente, perché a differenza di tanti altri, migrando, loro si sono dati anche una possibilità, forse dolorosa, ma pur sempre una possibilità che però non li ha visti tornare vincitori. Peggio, li ha resi “vinti”.
Ecco che di nuovo mi torna in mente il senso di inquietudine che accompagna una vita precaria, quel senso di impotenza. Ecco che mi risento precaria anch’io. Questa volta negli affetti. Adesso Alice, io sento forte la paura di perdere tutto quello che mi sono lasciata alle spalle. Ecco da dove viene questo sentimento di distanza che oggi mi padroneggia. Dalla paura della solitudine, dell’assenza di relazione, della perdita delle relazioni.
Mi chiedo così se la risposta a questi timori non sia tornare ancora una volta all’uomo. Non sarà che il modo migliore per vincere questo senso d’implacabile precarietà è quello di vivere appieno lo spazio dell’intersoggettività? Non sarà che dobbiamo stare un po’ più insieme, uniti anche nelle diversità, per essere un po’ meno soli e precari. Non sarà che dobbiamo impegnarci sul serio per costruire una rete di relazioni umane di cui sentirci parte attiva e integrante? Ti lascio con queste domande, Alice. Se sai farlo, aiutami a rispondere.

domenica 11 aprile 2010

Io sto con Emergency

Dalla parte di chi si schiera, di chi rischia la vita, dalla parte di chi c'è sempre stato, di chi è scomodo, di chi da fastidio perchè dice la verità, dalla parte di chi si sporca le mani...

http://www.youtube.com/watch?v=El-geQXCJnA
L'appello su www.emergency.it

martedì 6 aprile 2010

MATITE COPIATIVE: FINGONO DI ESSERE CHI NON SONO. IO NO.

Ad ogni tornata elettorale appare sempre più evidente il fatto che la mia percezione dell'Italia sia falsata. L’aspetto positivo di questa triste storia è che non sono l’unica. Ma, pur non essendo l’unica, i pezzi mancanti del mio puzzle non li troverò su questa sponda del fiume.
Non per scelta, ma mi ritrovo sempre a discutere con persone che hanno una mia stessa visione del mondo. Non identica, certo, ma nemmeno troppo distante. Il risultato è che da sedici anni a questa parte, dò sempre per scontato che Mister B. non goda della maggioranza del consenso nel nostro paese. Ovviamente mi sbaglio, e non di poco.

La prima volta che ho goduto del mio diritto/dovere al voto politico era il lontano 2001. Ricordo d’essere stata talmente emozionata d’essermi recata a votare solamente nella tarda serata di quel 13 maggio. Non volevo che “finisse subito”. Volevo godermi il mio dovere/diritto fino alla fine, fino in fondo.
La mia migliore amica, anche lei emozionantissima, mi disse che, avendole consegnato una matita e temendo, lei, che qualcuno cancellasse il suo voto, lo aveva espresso, il voto, con la sua personalissima e fedelissima bic. Nullo!
Scoprendo l’arcano della “matita magica”, crollò sul punto di piangere.
Quando si dice che la prima volta non si scorda mai, non ci si sbaglia nemmeno quando all’amore lo fai con le elezioni politiche.

Il 2001 era l’anno della Silvio Story, quel giornalino recapitato nelle case di milioni di italiani che recitava l’apologia di un matrimonio che finirà nel più osceno dei modi pochi anni più tardi. Era l’anno in cui Iva Zanicchi proponeva un “e diamogliela questa possibilità”.
Era l’anno in cui, il 14 di maggio, io e l’amica di cui sopra, marinammo la scuola in segno di protesta. Acquistammo tutti i quotidiani, svaligiammo l’edicola perché volevamo capire esattamente cosa fosse successo, come potesse essere accaduto. E ci esibimmo, in fondo, in uno sciopero bianco, cosciente, indignato, attivo.
Perché “perdere”, la prima volta che esprimi un voto, brucia in maniera strana. Ma come? Mi pareva d’essere stata attenta, d’essermi informata, ho perfino utilizzato la matita giusta, io! Una grande ingiustizia, insomma.
Da quella volta in poi, ogni volta, ti vien voglia di fare come tuo nonno faceva con le squadre di calcio. Per chi tifi? Per la prima in classifica: vittoria assicurata.
Perché vincere, in fondo, piace proprio a tutti. A parte alla gente che in Italia si ostina da quarant’anni a votare a sinistra e agli interisti, fino a qualche anno fa.

La verità è che è frustrante vivere in un paese che non capisci, è deprimente non riuscire ad intuire "dove stiamo andando". Dare per scontato che la tua visione del mondo sia quella prevalente e risvegliarsi all'improvviso in un un mondo completamente diverso.
Probabilmente da "grande", in un luogo nel quale lavorativamente parlando, se tutto va bene, diventi grande a quarant'anni, vorrei fare la giornalista proprio perchè vorrei raccontare il mondo così com'è. In pratica, per riuscire ad avere una giusta considerazione dei pesi politici che reggono i fili di questo paese; per avere un'esatta percezione delle dinamiche sociali, dei fatti, dei risultati elettorali.
Tutti dicono che il nostro belpaese è spezzato in due. Io lo so, lo so bene. Mi ritrovo qui, di fronte al computer, a guardare il made in Italy da un occhio solo, respirarlo da una sola narice. 

Non è cambiato granché dal 2001 ad oggi. Che è quasi il 2001 se non fosse che l’uno e il secondo zero sono invertiti. A parte la parentesi prodiana, Mister B. continua a vincere. A parte la parentesi prodiana, c’è chi continua a perdere, anche se nel frattempo ha imparato che la matita dentro al seggio è copiativa; si finge una matita, ma è indelebile.
Di differente, rispetto al 2001, c’è che oggi non abbiamo nemmeno diritto allo sciopero bianco, perché siamo disoccupate. Stiamo al 28% e tra questi i più colpiti sono i giovani e tra i giovani, le donne.
Siamo noi, io e la mia amica. L’Adamo ed Eva della creazione politica, condannate ad espiare quel peccato originale.
Se solo avessimo scelto Silvio. Oggi la crisi non ci morderebbe le chiappe, oggi una starebbe in vacanza al Parlamento Europeo, l’altra reciterebbe da cani a Centovetrine. Se solo avessimo scelto Silvio, oggi riusciremmo a guardare il Tg1 senza vomitare. Se solo avessimo dato retta ad Iva, che ce lo aveva letto nel palmo della mano, oggi avremmo un figlio e si chiamerebbe Giovanni Come Questa Piazza. Oggi saremmo ottimiste. Oggi faremmo parte di quel milione di “femmine e maschi” che cantano Apicella. 

Pensare ad un mondo in cui tu non fossi stato tu, ti fa capire quanto possa essere importante esserci. Ti fa misurare, con attenzione, ogni scelta. Te le fa valutare, le scelte. Ti permette di dire esattamente dove saresti stato, chi non saresti stato. Probabilmente hai sbagliato tutto, ma tu sei tu e riscoprirlo, di tanto in tanto, ti strappa un sorriso e ti riempie di forza.
La forza che l’aver scelto chi essere, ti lascia addosso.

domenica 4 aprile 2010

DISSE IL VERME ALLA NOCE DAMMI TEMPO E TI BUCO



Sapete cosa mi pesa di più in questo periodo?
Non tanto la sitazione sociale, umana in cui sono costretto avivere ma i discorsi da "birra al pub" che mi tocca sentire, del tipo.....
-Nel mondo c'è un sacco di merda!- Questo è vero!
-Nel mondo c'è un sacco di violenza!- Vero anche questo!
-Ci sono i cattivi e sono tanti!- Verissimo!
-La puzza di marcio è tanta ed un pò ci nausea!- Come dire di no?
Ma cavolo, è possibile che sia tutto così e basta?
E' possibile che non ci sia chi dopo il pub si fa una bella dormita e poi la mattina seguente alza il suo culo e cerca di cambiare le cose?
Io credo di sì, anzi so che non tutti restano nel "tunnel" della routin quotidiana con la mano sul naso durante il giorno e la birra "incazzata" la sera.
Certo, i polemici potranno dire che è tutto inutile, che tutto resta fine a se stesso, che bisogna trovare la "verità", la soluzione "perfetta", altrimenti si spreca energia, ma io non ci credo!
Io credo che bisogna ascoltare la propria rabbia e trasformarla in energia per creare il cambiamento, tenarci al meno e poi chissà che qualcosa cambia davvero.
So di non essere solo, lo so perchè ho cercato e ho trovato tanto...cosa?
Oggi vi racconto della banca del tempo, si, la parola banca fa storcere il naso anche a me ma, ad ascoltar la storia, il fatto pare interessante.
Nel 1988 proprio qui, proprio in Emilia-Romagna, qualcuno, non so chi, si è inventato che per rispondere ad una "società dell'individuo", ad un mondo in cui ci sono città piene di persone ma dove ogniuno si fa i fatti suoi, dove i soldi sono più amici delle persone, bè proprio in un mondo così si poteva inventare un'iniziativa in cui "si sta vicini", in cui ci sia aiuta non per pietà ma per il valore della condivisione e della convivenza.
La banca de Tempo dice: tu hai una competenza, e tante necessità, poi hai un lavoro ma questo non sempre è sufficiente a farti risolvere ogni bisogno, ed allora? Speri nella beneficenza di qualcuno? Ti cerci  un secondo lavoro così forse apparentemente risolvi le cose ma poi smetti di vivere? No no, allora ti apri "un conto" nella Banca del Tempo e ci metti delle ORE in cui offri la tua competenza e poi comunichi le tue necessità. Così ogni ora che darai diventerà un tuo CREDITO che ti verrà restituito da un altro "correntista" dotato della capacità di soddisfare le tue necessità, tutte le competenze anno lo stesso valore-tempo perchè si spera che se, per esempio, fai il professore lo fai perchè ci credi e non perchè "vale" di più dello spazzino o dell'idraulico.
Ora, la storia può sembrar complessa ma in realtà a farla è semplice e funzionale, funziona perchè invita la gente ad aiutarsi giorno per giorno, funziona perchè è una sorta di economia senza soldi che personalizza gli scambi e riempie la vita delle persone di altre persone, fa stare insieme, quasi come se addirittura si potesse condividere il bisogno e da lì imparare a condividere anche il bello.
Se sul web cercherete la voce Banca del Tempo troverete tanto e tutto sarà più chiaro di me, qui da noi, a Bologna, ci sono addirittura reti di banche del tempo che si intrecciano con reti di Gruppi d'Acquisto Solidale che fanno poi altre cose, insomma un casino di roba e sono forti e visto che, cavolo, le istituzioni, i comuni a quanto pare si stanno impossessando della prerogativa di usare questo strumento snaturandolo a mio parere, bisogna far qualcosa.
Io credo nei piccoli passi che sanno crearne di grandi, che sanno cambiare in profondità il sapore di vivere la quotidianetà, la città, i quartieri, lo stare insieme. Quindi ho un'idea, bastano una decina di persone e buona volontà per mettere su una BdT ed essendo uno strumento di solidarietà, di reciprocità libera e creativa più ce ne sono meglio è, che ne dite? Ci proviamo?
Buonanotte gente.

http://www.tempomat.it/index.asp
http://isole.ecn.org/xm24/article/350/momo-banca-del-tempo
http://www.bandieragialla.it/node/3031

IL MIO AMICO CIAK, TAKE 7, JESUS CHRIST SUPERSTAR

Il mio amico Ciak dice che a prescindere dal fatto che tu sia cristiano o meno, la metafora descritta dalla festa cattolica della Pasqua, non ha prezzo.
Quella metafora del rinascere, rigenerarsi, risorgere, ricrearsi. La metafora dell'uomo che si fa dio. Good resurrection dudes!

Paparazzi quest'oggi ha canta(to)lamessa dopo che, in maniera del tutto originale, il decano del Collegio cardinalizio, cardinal Angelo Sodano, gli aveva rivolto una sorta di augurio. Questa Pasqua, insomma, all'insegna della rivoluzione dei protocolli e della tradizione millenaria ecclesiastica, evidentemente provata dal fattaccio "pedofilia".
Dopo un premier ultra indagato, mai ci saremmo aspettati di avere anche un Papa indagatissimo.
Siamo un popolo in cammino, ma, per quanto ci sforziamo, non riusciamo ancora a vedere la luce.

Si ritrovano completamente al buio tre celebri volti del telegiornale 1, quello diretto dal direttorissimo, al secolo Minzo, che non gradisce dissidenti all'interno del suo personalissimo esercito dell'informazione. Maria Luisa Busi, povera, resiste, quello le manda una lettera di richiamo. Tiziana Ferrario, Paolo Di Giannantonio e Piero Damosso, vengono silurati ufficialmente per far posto ai precari, ufficiosamente perchè si sono rifiutati di sottoscrivere una lettera in favore di Augusto Sir Minzolini. Risorgeranno? Beh, Daniele Lutazzi, dopo otto anni, ce l'ha fatta.
Siamo un popolo in cammino, ricco di speranza. E di ottimismo.

Il mio amico Ciak è rientrato alle cinque questa mattina, dopo una notte giovane. E' già risorto. Vi augura altrettanto.

giovedì 1 aprile 2010

THE WEEK AFTER




CRONACA DI UNA NORMALE SETTIMANA ITALIANA

Giovedì scorso Bologna si preparava ad ospitare Annozero, il Paladozza veniva allestito e piazza Azzarita cominciava a riempirsi dei primi curiosi.
Non parlerò di ciò che è accaduto quella sera perché ormai tutti dal vivo, nelle piazze o in streaming  hanno visto la puntata di RaiPerunanotte.
Quello di cui mi interessa parlare è la mia sensazione, ma anche quella che ho letto nei blog e nei racconti di chi come noi ha assistito e lavorato affinchè questa serata potesse riuscire; voglio parlare di quell’emozione nell’ascoltare le parole di Danilo Dolci, uno che ha lottato; dell’applauso liberatorio quando Monicelli ha parlato di rivoluzione; della giovane ricercatrice che incitava alla lotta, a “sporcarsi le mani per pulire questo mondo”. Parlo di questa sensazione di possibilità, questo grido contro chi ci vuole la generazione degli assopiti, dei menefreghisti; parlo della voglia di cambiare, di muoversi che io sento e che in momenti come questi ho sentito quantomai condivisa.
Si, senza censure, parlo della nostra voglia di rivoluzione, della mia fede nella nonviolenza attiva, parlo di sovvertire, resistere, dire basta.

Ora, cambio registro e vado avanti nei giorni di questa strana settimana: domenica e lunedì le elezioni regionali, anche qui, non parlerò di dati ma di altre sensazioni. Io appartengo a quei tanti che quando gli viene chiesto: “ma sei di sinistra?” risponde: “si, ma non di questa!”, eppure, come molti di noi, sabato ho passato la nottata davanti ai programmi rai sperando fino all’ultimo che non andassero tutti quei voti alla Lega, sperando che qualcuno su quelle poltrone dicesse qualcosa di sensato. Eppure, giocavano a chi inventava insulti più originali, inveivano contro i grillini, contro chi si è astenuto, “voti di protesta” li chiamano con presunzione. “Ci hanno tolto voti”, dicono, ma non vi rendete conto che i voti ve li togliete da soli non prendendo decisioni chiare; alleandovi con l’uno o con l’altro a seconda di quanti voti vi servono; non rappresentando e non difendendo nessuno pur di non prendere posizione; rifiutando qualsiasi ideologia?
Non ci rappresentate, questo avrei voluto gridargli al di là dello schermo, spero che finalmente l’abbiano sentito.

Infine arrivo ad oggi in questa personalissima cronaca: apro i giornali, un’insalata di notizie che mi hanno più colpito: ancora polemiche sui voti di scambio a Napoli, è del 26 marzo  l’inchiesta del Mattino che parla di schede elettorali false in cambio di posti di lavoro, oggi si riscuote; tre giornalisti allontanati dal TG1, la Busi da venti anni al servizio del telegiornale teme perché non ha firmato a favore di Minzolini; la pillola abortiva da oggi in Italia, Cota si oppone alla diffusione in Piemonte, la chiesa lo ringrazia…non vado avanti, anche qui parlo di sensazioni: potremmo scegliere di dimenticare quella voglia di cambiamento di cui parlavamo prima, lasciarci andare a “il nostro paese funziona così” e provare a dormire sogni tranquilli oppure decidere di scegliere, organizzarci, muoverci…
Io ho scelto, ma non posso e non voglio farlo da sola.


Una voce di Alice

“Poteva come tanti scegliere e partire e invece lui decide di restare”.


È forse questione di coscienza. Una mera condizione di consapevolezza.
Non accade solo a Cinisi. Forse a Cinisi accade sempre di meno. Forse quel  9 maggio del 1978 è stato dimenticato da troppe persone in quel di Cinisi. Forse quel 9 maggio ’78 nel resto d’Italia è solo narrato in un film, o cantato dentro una canzone. Forse è troppo lontana quella consapevolezza che troppe cose di quel che ci circondano sono sbagliate. Eppure sarebbe tutto così chiaro e semplice.
Prendere consapevolezza. È forse questo il difficile. Perché se accade in Sicilia “Beh, li la mafia si percepisce anche nelle strade!”; ma se accade a Bologna, “Beh, qui la mafia non c’è!”. E soprattutto se accade in Sicilia, il pazzo che lotta da solo contro la mafia prima o poi salterà in aria. Se accade altrove il pazzo magari farà una manifestazione o scriverà un articolo, ma il giorno dopo tutto sarà come prima.
È forse la percezione del rischio che aiuta la gente a svegliarsi? O forse la percezione del rischio crea paura e perciò silenzio?
Insomma, che cosa è necessario per risvegliare le coscienze?
Una risposta forse esiste. Questa risposta è la cultura. Non conoscenze dogmatiche, o semplicistiche frasi fatte. La cultura come conoscenza della realtà; una realtà che può essere sotto gli occhi di tutti o una realtà diversa, ben nascosta da colletti bianchi e sorrisi splendenti. Imparare a riconoscere dovrebbe essere il dictat di una nuova civiltà.
Il desiderio di un mondo di cultura per sconfiggere l’indifferenza e l’omertà passa anche da queste poche righe. Passa dal Sud, come da Nord. Passa. Ma non deve lasciare indifferenti.

Alice Boum © www.Blogger.com changed Un Blog di Disobbedienza Creativa by http://aliceboum.blogspot.com