lunedì 12 aprile 2010

Diari Esteri 2 -Precari non si nasce, si diventa-

Cara Alice,
che strano questo senso di inquietudine con cui oggi mi trovo a fare i conti. Oggi sento tutta la distanza. E vivo la paura. Tu sai bene che sono partita carica, piena di energia e voglia di intraprendere strade nuove. Nessuna guerra fuori dalla mia porta. Nessuna disperata prospettiva di vita nel mio mondo. Anzi. Una vita sicura, tutto sommato, stabile negli affetti, gravida di emozioni, di progetti, di problemi e di soluzioni. Una vita precaria su molti altri versanti, come quella di tanti altri, di amici, di conoscenti, di sconosciuti e di nemici: tutti accomunati, anzi, tutti uguali di fronte a questa cosa che chiamiamo precarietà.
Chi ha studiato e chi no, chi parla cinque lingue e chi solo una, chi ha girato mezzo mondo e chi a stento conosce la propria città, chi vive di ambizioni e chi non ne ha alcuna, chi è ricco e chi no, chi è povero e chi no. Tutti diversi eppure tutti uguali almeno di fronte al sentimento di precarietà, alla sua ingombrante concretezza. È così che ho fatto la mia scelta. Si parte per tante ragioni, certo, ma io personalmente sono partita prima di tutto per sfuggire alla precarietà imposta. Ho lasciato la mia Bologna, la mia casa, i miei amici e il mio amore per scegliere autonomamente la strada della precarietà. Sì perché non facciamo l’errore di pensare che fuori dall’Italia ci sia una nuova America ad aspettarci. Niente di più sbagliato. Fuori dall’Italia c’è sempre la stessa precarietà ad aspettarti, forse persino più spietata e selvaggia. Con una differenza sostanziale che, Alice cara, fa la differenza (concedimi il gioco di parole): fuori dall’Italia il tuo lavoro ha un valore, spesso – udite udite – ha anche un prezzo (ebbene sì, Alice, qui se lavori ti pagano: una rivoluzione!); fuori dall’Italia hai la possibilità di mettere a frutto quello che studio ed esperienza ti hanno insegnato, unita alla possibilità di continuare ad imparare perché, fuori dall’Italia, l’idea della formazione permanente ha smesso di essere soltanto un’idea ed è diventata realtà. Solo che fuori dall’Italia non c’è l’Italia. Ed è un peccato. Perché solo dio lo sa quanto è bella e viva e varia e vivace la nostra Italia. Tenuta in pugno da uomini piccoli vestiti da gran signori. Da uomini che decidono tutto, anche della nostra precarietà. Che sono bravi a considerarci uguali sotto un unico punto di vista: rendendoci impotenti e rassegnati.
Ed ecco che allora decidi di andartela a cercare da sola la tua precarietà, scappi via e provi ad attribuire nuovi significati a una parola che fino ad ora ti aveva fatto solo paura. E cominci ad associarla alla varietà, alla versatilità, alla possibilità. Perché se sei precario sei sempre in movimento, sempre pronto a inventarti nuovi percorsi, nuove strade, nuove progetti. Se sei precario, finisce che cambi spesso lavoro e, guarda un po’, impari a fare mille altre cose oltre a quelle che avevi pensato di potere e di sapere fare. Se sei precario la tua parola d’ordine, non è più né essere, né avere. Se sei precario la tua parola d’ordine è divenire. Con questo, cara la mia Alice, non voglio certo fare un’apologia di quella parolina che oggi ho ripetuto e scritto così tante volte; non voglio nemmeno dire, tra Voltaire e Candide, che questo in cui siamo gettati sia il migliore dei mondi possibile. Voglio però provare a vedere la cosa da una prospettiva diversa, disobbedire al modo usuale di leggere e di vivere la precarietà.
E allora perché questo senso di difficoltà, perché sento la distanza e la paura? In questi giorni, Alice, ho avuto modo di parlare con molte delle persone che frequentano la scuola in cui lavoro. Sono per lo più stranieri, per lo più disoccupati. Mi sono chiesta e ho chiesto loro che cosa si sente a essere disoccupato. Ad avere 30, 40, 50 anni o più, trovarsi lontano dal proprio mondo e non avere nemmeno più un lavoro, aver perso cioè quell’unica ragione che ti aveva portato via dalla tua terra e dalla tua vita. Beh Alice, molti di loro nemmeno mi hanno risposto. All’inizio non capivo perché abbassassero lo sguardo facendo finta di non capire la domanda. Poi ho capito. Come ci si sente? Prima di tutto ci si vergogna. Sì, loro si vergognano, glielo leggi in faccia: si vergognano di avere poco o niente, di rappresentare quella parte di società che tutti guardiamo con timore.  Spesso si vergognano di essere stranieri perché hanno abbandonato tutto e si sono spostati in cerca di fortuna, ma senza successo e allora pensano di valere meno di niente, perché a differenza di tanti altri, migrando, loro si sono dati anche una possibilità, forse dolorosa, ma pur sempre una possibilità che però non li ha visti tornare vincitori. Peggio, li ha resi “vinti”.
Ecco che di nuovo mi torna in mente il senso di inquietudine che accompagna una vita precaria, quel senso di impotenza. Ecco che mi risento precaria anch’io. Questa volta negli affetti. Adesso Alice, io sento forte la paura di perdere tutto quello che mi sono lasciata alle spalle. Ecco da dove viene questo sentimento di distanza che oggi mi padroneggia. Dalla paura della solitudine, dell’assenza di relazione, della perdita delle relazioni.
Mi chiedo così se la risposta a questi timori non sia tornare ancora una volta all’uomo. Non sarà che il modo migliore per vincere questo senso d’implacabile precarietà è quello di vivere appieno lo spazio dell’intersoggettività? Non sarà che dobbiamo stare un po’ più insieme, uniti anche nelle diversità, per essere un po’ meno soli e precari. Non sarà che dobbiamo impegnarci sul serio per costruire una rete di relazioni umane di cui sentirci parte attiva e integrante? Ti lascio con queste domande, Alice. Se sai farlo, aiutami a rispondere.

1 commento:

  1. Sulla condizione del migrante...
    una riflessione.

    Per ogni uomo la terra d'origine rappresenta il tesoro della propria identità sociale e culturale, proprio , perchè molto spesso ne custodisce gli affetti e le aspirazioni profonde.
    Nell'oggi frenetico, globalizzato le barriere spazio-tempo e le possibilità di comunicazione sembrano esser state battute da un avanzamento tecnologico senza precedenti eppure rimane forte e vivo il senso della distanza, di un'esistenza, in molti casi, vissuta sotto il segno dell'esclusione, dell'isolamento sociale.
    La profonda solitudine che vive il migrante è ulteriormente amplificata e legittimata da una serie di divieti.
    Ostacoli di una burocrazia ipocrita che vieta, che allontana, che rinnega.
    Facilmente si può essere invisibili in questa società pur lavorando, producendo e consumando come deve essere in qualsiasi società materialista e proprio da questo isolamento sociale che traggono forza certe tendenze, certi partiti e perfino certe opinioni cosi ben radicate.
    Scrive un grande sociologo algerino:
    " L'immigrante ha una doppia pena, quella della lontananza dalla sua terra e quella del riconoscimento del Paese che lo ospita ".
    Quello che mi chiedo spesso è come poter facilitare questo "riconoscimento", in Paesi, come la nostra Bella Italia, che ha conosciuto l'amara verità dell'emigrazione senza purtroppo farne tesoro...
    e concordo pienamente che solo attraverso la costruzione di una rete di relazione umane si possa ottenere qualcosa, ma per riuscire a rendere reale questa intenzione si deve,necessariamente, partire da se stessi.
    In ognuno di noi è radicato un certo tipo di distacco dal mondo, da ciò che più di tanto non lo riguarda da vicino, un non voler vedere, un senso di impotenza di fronte alla follia della violenza che quotidianamente sopportiamo.
    Non ho sicuramente una soluzione di facile applicazione a tutto questo, di certo credo fermamente che l'indignazione, la vergogna, l'ignoranza, che tutti noi sentiamo in molti casi, debbano essere le molle che spingano a cercare un confronto, ad informarsi, a non dare nulla per scontato, a dubitare, a chiarire ... a "vedere" anche chi sembra "non esistere".

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Alice Boum © www.Blogger.com changed Un Blog di Disobbedienza Creativa by http://aliceboum.blogspot.com